lunedì 31 dicembre 2018

BLU DI CIELO

Vasilij Kandinskij, Blu di Cielo, 1940




Ho pensato: 
adesso mi blocco e non ne esco più,
perché ho studiato
col pensiero insistente di te.
Si può dire che l'abbiamo preparato insieme, quell'esame?
Adesso mi blocco e non ne esco più,
mi ero tagliata i capelli da poco.


La sera in cui il mio cervello
si autosabotò,
diventando uno sterminato
spazio bianco e vuoto,
mi sono fatta una foto
per non far preoccupare
mia madre.
La didascalia diceva
short hair don't care
con gli occhi ancora di pianto.


Ma io ti lascio andare,
ho deciso tornando a casa con lo zucchero, 
l'ultimo giorno di lezioni
della mia vita.
Ho pensato:
voglio ricordarmelo
questo momento qui,
mentre torno a casa
per l'ultima volta
con questo sacchetto in mano
e il tramonto davanti.
Voglio ricordarmela,
questa inusuale
calma dentro
che mi sembra un Autunno
perenne. 
Anche se l'Estate non era ancora
iniziata.


Ho mollato la presa
sul rimpianto di te,
il giorno in cui
ho iniziato a leggere quel libro
che sapevo mi avrebbe fatto male:
sulle scale della biblioteca,
cercando di contenermi.
Pull myself together,
dicono gli inglesi.
Questa poesia non doveva essere
su di te
ma sul coraggio che ho avuto 
una sera,
di lasciarti andare.


Tu sei solo un ulteriore promemoria
delle Prime Volte
che ho fissato
negli occhi 
ed erano già Ultime:
l'ultima volta che ti ho visto
mi sono ricordata
dello zucchero.
E degli esami che non ho più 
preparato
con in testa te.


Adesso mi blocco e non ne esco più
ma intanto i mesi 
sono passati
e in fondo ai tunnel
delle mie piccole catastrofi emotive
non ho più visto
gli occhi tuoi.


Sai.


Forse in un mondo parallelo 
in cui capiresti,
leggeresti in questa poesia
il modo in cui dico tutto 
con due parole.
Il coraggio,
soprattutto di iniziare.
L'Estate più calma
degli ultimi 
sette anni.
L'Arte Medievale
e quel campo sterminato
di spighe 
tornando a casa.
Quando me ne sono andata.


In un mondo parallelo 
rideresti
al panico collettivo di 
sei amiche 
con le valigie,
sotto un acquazzone estivo.
Che tutto quello 
che ho fatto
per una settimana
è stato ballare al buio, 
prima di addormentarmi.


Tutto quello
che ho fatto per un anno
è stato provarci, 
a passare al di là di me stessa
per guardare con occhi fermi
ciò che mi lasciavo indietro;
a pianificare di spaccare 
i muri 
che mi si chiudevano addosso
in piena notte. 


Forse in un mondo parallelo
capiresti
ma non mi interessa più spostare le montagne
di un tuo sorriso:
non scambierei 
per la tua comprensione,
gli incommensurabili
giorni a perdermi da sola
tra le strade di Firenze.
I concerti
per dirsi addio.
L'arte di saper
disinnescare,
come in quel film di Genovese.
Il coraggio di 
alzare i tacchi 
ed andarmene.
Per salvarmi.


Non scambierei 
per tutti gli sterminati spazi bianchi
che colmavi 
per un po'
quando mi abbracciavi al sole,
la notizia
un giorno
di una vita in arrivo.
Il modo 
in cui ci siamo guardate
in silenzio,
sbigottite.
Allungandoci all'infinito.


Adesso mi blocco e non ne esco più.
Ma intanto i miei capelli sono ricresciuti
e questa,
non doveva essere 
una poesia su di te.
Ma ti ho scritto
parole,
di cui non hai idea
e in un mondo parallelo,
in cui non avrei il coraggio 
di sorridermi allo specchio
le capiresti.
E rimarresti.





A. S.

domenica 2 dicembre 2018

LUCI NOSTRE


Urlavi «cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?».
Mi colpisce il pensiero di come l'impulso nostalgico di una mattina di Settembre, mi abbia spinto ad acquistare un biglietto per la data più vicina. "Vuoi venire?", ho scritto a M., e ancora prima che mi rispondesse sapevo già che sarebbe stato un sì. Il 3 ottobre, invece, nella quotidianità priva di nostalgia (semmai piena di stress) di una mattinata di studio come tante, mi è apparsa sul cellulare la notizia che questi dieci anni di Luci si sarebbero presto spenti. Il modo in cui l'hai detto però, specificando che in maniera molto relativa tu andavi a chiudere un progetto di dieci anni e c'era ancora un sacco di gente che nemmeno aveva idea di chi tu fossi, non l'ha reso tragico. Perché a me piace tantissimo la relatività delle cose. E' stato triste, ecco, anche se tutto quello che sono riuscita a pensare era che è bello accorgersi di essere cresciuti. Tu te ne sarai accorto chissà come, ma dev'essere stata una rivelazione inaspettatamente serena. Come quando senza volere guardi fuori dalla finestra e dici "ah, ma è già buio". Una constatazione amichevole del nostro niente, per rubarti le parole. 
Dicevo, in maniera molto relativa tu chiudi questo progetto e c'è gente che è ancora convinta che Le Luci Della Centrale Elettrica sia un gruppo (anche io un bel po' di anni fa ho fatto un po' fatica a capirlo), invece ci sei sempre stato solo tu e quella specie di confusionaria slam poetry che lasciava perplessi chi non ti capiva. 
Io invece ho sempre pensato che lavoraccio fosse, mettere dentro una canzone tutto tutto tutto quello che volevi dire. Tu mi hai dato sempre l'impressione di esserne capace, indipendentemente dalle parole che usavi. Indipendentemente dalla confusione, ho sempre capito quello che dovevo capire.
Quindi sai cosa racconterò, di questi cazzo di anni zero? Racconterò la prima parte dei miei vent'anni, il privilegio di crescere accanto a quel gruppo assurdo di amici che mi ha raccolta da terra, ricomposta, messa in piedi tante volte. Un privilegio secondo solo alla gioia di veder loro crescere, compiere passi da giganti, acquisire consapevolezze, ritrovare se stessi dopo essersi persi. Racconterò dei giorni in cui imparavamo a conoscerci, le sere in cui tornavo a casa a piedi dall'università, la solitudine dei ritorni e delle partenze, l'insonnia causata dal pensiero che il futuro potesse separarci, ma «nel disastro il futuro era sempre lì a sorriderci»; dei tramonti che mi riempivano il cuore, le cime degli alberi dopo una lunga giornata, i viaggi in solitaria, le serate felici da fare schifo, tutti i concerti rigorosamente in transenna, i pianti trattenuti, gli esami che mi hanno fatto disperare,  le stanze vuote, il rumore delle luci. 
Le tue canzoni a fare da soundtrack senza volerlo, ad insegnarmi a provare a dire tutto quello che c'è da dire. Com'è crescere «all'interno delle luci»; com'è non scordare mai le parole di Cara Catastrofe, che ha aperto tutto, inclusi questi anni. E poi racconterò di te, dicendo che «dopo di lui più nessuno a correre con le braccia ad ali di gabbiano», perché servirebbe anche quel tipo di coraggio, a vent'anni.
Hai chiuso con un'inaspettata versione acustica di Questo Scontro Tranquillo, radunandoci tutti ai piedi del palco e non potevi che regalarmi gioia più grande.

Si abbassano le Luci
Si alza il sipario
Entra: Vasco.

domenica 4 novembre 2018

F.

Sono tornata l'altro ieri da cinque giorni a Firenze, vissuti completamente da sola con la mia meraviglia, la sorpresa e la gratitudine anche per i più piccoli incidenti di percorso. Non so ancora organizzare bene nella mia testa le parole giuste per mettere tutto in chiaro: ciò di cui sono sicura ora è che Firenze è stato l'obbiettivo più nascosto degli ultimi due anni e mezzo. E adesso, pensandoci, quei cinque giorni sono stati un po' il riassunto di tante cose, di me, della mia carriera universitaria, delle persone che mi circondano, del mio futuro, dei miei sbagli, della mia autonomia. Un bel riassunto in cinque puntate, che forse ha riconnesso un po' la trama di pezzi di me stessa, che pensavo di essermi persa per sempre per strada.
E' tutto ciò che dirò, di Firenze, perché sembravo esserci da sempre e anche ora che sono ritornata, è come se non mi fossi mossa dalle sue strade. Sto cercando di capire se sono tornata intera, ma ne dubito. Serenamente, ne dubito.

sabato 15 settembre 2018

VII


Ho esitato prima di mettermi a scrivere, solo un momento, per fissare questo spazio ancora bianco. Sarà solo l'ennesimo mucchio di frasi che parlano di te, senza che tu lo sappia. Di nuovo questo, l'unico modo che mi viene in mente per non sopperire pensieri che non mi va più di nascondere a me stessa. Come se fosse facile.
Due mattine fa mi sono svegliata e mi ha colpito il ricordo di quella volta che sei sbucato dal c18 con un'espressione che non saprei tuttora definire nel modo giusto. Ricordo solo che mi fece istantaneamente stare bene. In reazione a questo ricordo momentaneamente sbiadito (di quel giorno ricordo sempre, più che altro, il modo in cui ce ne siamo stati abbracciati al caldo per un po'), ho comprato un biglietto per una tappa de Le Luci a Bari.
E' un periodo particolare per la mia testa, quando ti penso e decido di scriverti nel cuore della notte perché so che ti trovo sempre. Forse un mero e patetico tentativo di spingerti a fare lo stesso. Ma sono giunta alla conclusione che non ho nessuna intenzione di cambiare te o le circostanze. Provare a vivere senza aspettative, magari? Qualcuno ci è mai riuscito?



lunedì 30 luglio 2018

VI

E' da giorni che rimando l'annuale resoconto semestrale che faccio in estate, dopo la sessione d'esami, quando è finalmente notte e tutti mi lasciano in pace e io posso fare mentalmente dei passi indietro per capire dove sono, adesso.
Ad esempio, stamattina mentre preparavo pane e pomodoro per mia cugina, mi ha colpito il pensiero che una delle cose che mi rimane di questi ultimi sei/sette mesi è proprio il fatto che io abbia ripreso a mangiare pane. Ho una relazione complicata, col pane, ma questo è stato solo uno degli effetti collaterali di mesi passati, ad esempio, a vivere lontano dalle mie migliori amiche.
Perché questi mesi sono stati mesi di ultime, ingombranti volte. Ho seguito gli ultimi corsi della mia carriera universitaria, ho lasciato la mia ultima casa... Una cosa che non credevo mi rassicurasse, è sapere che ora tutta la roba accumulata in questi sei anni a vivere lontano, si trovi finalmente nella camera di casa mia. Finalmente non c'è più nessun pezzo sparso, di cuscini o coperte, in giro per le case di amici. Non credevo mi rassicurasse la stabilità, soprattutto quella tra le mura in cui sono cresciuta. Ritornare alle origini e non voler scappare. Questi sette mesi mi hanno insegnato l'arte di saper disinnescare, come in quel film di Genovese, ma anche la volontà di sapersi distaccare dagli altri, come dai miei sentimenti o dall'idea che tutto questo sia definitivo.
Questa prima metà dell'anno mi ha costretto, contro ogni mia rosea prospettiva (e volontà), a capire che le responsabilità vanno prese fino in fondo. E' stata una delle cose meno divertenti da realizzare e mettere in atto, soprattutto nel momento in cui ho iniziato a pensare che se non avevo voglia di occuparmi di un cane, forse alla fine -quando il momento arriverà- non avrò voglia nemmeno di occuparmi di un mio futuro figlio. Esatto: per non farmi mancare qualche altra cosa, mi sono messa a pensare pure ai figli che non ho.
Ho camminato, tanto, e mi sono fatta sopraffare da inopportuni sensi di colpa perché non avevo voglia di prendermi alcuna responsabilità, ma il mondo lo richiedeva insistentemente. Ho iniziato a lavorare instancabilmente per non doverci annegare, in quel senso di colpa assurdo. Principalmente per quello. L'idea che avrei vissuto nel mondo per conto mio senza assumere alcuna responsabilità verso gli altri, è stata brutalmente spazzata via dall'imprevedibilità delle situazioni.
Tutto ciò che mi rimane è la consapevolezza di aver sprecato tanto tempo dietro alle mie paure e ossessioni, ma anche un chiaro promemoria a guardare sempre davanti a me, dritto oltre i singoli obbiettivi. Questo, e un paio di lezioni o tre sul sentirsi inadeguati, cosa che, per fortuna, per me è uno stimolo in più a far meglio. E quanta strada dovrò continuare a percorrere…
Sono stati mesi in cui mi ha colpito in faccia una verità che non riuscivo a vedere, perché ero impegnata a notare le assenze, i rimpianti, gli sprechi. Mi ha costretta a sedermi e fare i conti con il rispetto verso me stessa, la chiarezza verso i miei sentimenti e la realizzazione felice che non serviva più soffrire, ma lasciarsi alle spalle le notti insonni, tornando proprio sui miei passi. A recuperare rapporti che alla fine non meritavano di morire nel ricordo di una notte romana, ma dovevano andare avanti con la consapevolezza che spesso non si è giusti gli uni per gli altri, nel senso in cui pensavamo, ma ciò non vuol dire non poter far pace con certe vecchie idee che si rivelano sbagliate. Chiudendo una grossa fase del mio percorso universitario, mi sono persa a guardare l'ultimo tramonto mentre tornavo a casa, con lo zucchero appena comprato. E con un unico pensiero in testa: l'importanza dei ritorni.




mercoledì 11 luglio 2018

HANNAH GASDBY: NANETTE

Questa "comedy" standup di Netflix è stata un pugno nello stomaco che mi ha rialzata da terra. La storia di Hannah Gasdby è qualcosa che ho bisogno di sentire sempre più spesso, perché è la storia che non sono riuscita mai a raccontare io. Semplice e chiaro.
Ho passato la serata a riguardarlo, stasera, perché volevo segnarmi le sue parole sulla Storia dell'Arte perché essere storici dell'Arte, secondo la mia opinione, significa non smettere di studiare mai. Significa imparare da più punti di vista, da più contesti, da più esperienze. E da una persona come lei posso farlo, su vari fronti.
Le riporto per averle sempre a disposizione, perché vi è la storia della sua vita e anche della mia.

-"Lo scopo di un artista è quello di 'sentire'. Se Vincent Van Gogh avesse preso dei farmaci, ora non avremmo i girasoli."
-"[...] di farmaci ne ha usati. E tanti. Si medicava da solo, beveva e perfino ingeriva le tempere. Ma sai cos'altro faceva? Non dipingeva solo girasoli, ma anche ritratti di psichiatri. E non psichiatri a caso, ma quelli che lo curavano. E lo medicavano. C'è un ritratto di uno psichiatra in particolare in cui lui tiene in mano un fiore e non è un girasole. E' una digitale. E quella digitale faceva parte di una terapia che Van Gogh assumeva contro l'epilessia. E l'estratto del gran cazzo di digitale usato per scopi medici... e sai cosa succede se prendi dosi troppo alte di estratto di digiale? Ti fa vedere giallo dappertutto. Quindi magari abbiamo i girasoli proprio perché Van Gogh si medicava."
Gli ho chiesto: "cosa pensi veramente? Che la creatività debba per forza voler dire sofferenza? E' questo il prezzo da pagare? Così che tu possa godertela?  […]
Prendete Vincent.
La storia che raccontiamo su di lui non va bene perché la riduciamo alla classica storia di successo. "Ha venduto un dipinto in vita sua. Ma guardatelo ora." [...] E la gente crede che Van Gogh sia stato questo genio incompreso. Qualcuno nato prima del suo tempo. Che mucchio di stronzate. Nessuno è nato prima del tempo. E' impossibile! Nessuno può nascere prima del tempo! Non sono gli artisti a inventare lo spirito del tempo, reagiscono solo. Non è nato prima dei tempi. Era un pittore post-impressionista nel picco del post-impressionismo, mentre i trentatré trentini trotterellavano. Non è nato prima del tempo. Non sapeva socializzare. Perché era fuori di testa. Un pazzo instabile. La gente cambiava strada per evitarlo. E' per questo che vendette solo un quadro in vita sua. Non riusciva a socializzare. Questa cosa dell'idealizzare le malattie mentali è ridicola. Non è sinonimo di genio. E' sinonimo di un bel niente. E gli artisti non sono queste figure mitologiche che esistono fuori dal mondo.
No, gli artisti hanno sempre fatto parte del mondo e spesso sono stati attaccati al potere. Sempre.
Dove c'è potere e denaro, c'è sempre l'arte. E questo fin dal Rinascimento.
[…]
Ma è un peccato che la storia dell'arte sia qualcosa di così elitario. Mi ha insegnato molte cose. Inutili a livello economico, ma ho imparato come funziona il mondo. Capisco molto bene come funziona e lo capisco grazie alla storia dell'arte.
[…]
Mi ha anche insegnato che ci sono due tipi di donne. Le vergini e le prostitute.
Una ragazzina ha sempre e solo avuto due opzioni. Diventare una vergine o una prostituta. La scelta era tra queste due.
[...] Se andate a vedere tutte quelle vecchie opere esposte nelle gallerie, sembra che le donne esistano da un po'. Da ancora prima dei vestiti.
[...]
Ma la storia dell'arte mi insegna che, tradizionalmente, le donne non avevano tempo per pensare. Erano troppo occupate a pisolare nude nella foresta.
[...]
L'arte occidentale è fatta di uomini che ritraggono donne come vasi di carne dove piantare i propri gambi. 
-
[...]
Pablo Picasso. Lo odio, ma non si può dire. Lo detesto. Ma non puoi. Cubismo. E se rovini il cubismo la nostra civiltà andrà in rovina. Il Cubismo. Non siamo grati, tutti noi... di vivere in un mondo post-cubista? Non è la prima cosa che scriviamo nei nostri diari della gratitudine? Non mi piace Picasso. Lo detesto. E so che dovrei essere più generosa con lui perché soffriva di malattie mentali. Ma nessuno lo sa, perché non si addice al suo mito. Perché ci fanno credere che Picasso fosse questo virile, passionale e geniale scroto di uomo, no? Ma soffriva di malattie mentali, Picasso. E la cosa peggiorò con l'età. La malattia mentale di Picasso era la misoginia. 
"La misoginia è una malattia mentale?" Sì. Sì che lo è. Specialmente se sei un maschio eterosessuale. Perché se odiate ciò che desiderate, sapete cosa avete? Un bel po' di tensione!
Dicono che non era un misogino, ma si sbagliano. Se non mi credete, sentite cos'ha detto il nostro caro Picazzo: "ogni volta che lascio una donna, dovrei bruciarla. Distruggi la donna e distruggerai il passato che rappresenta." Bel tipino. Il più grande artista del ventesimo secolo. Rendiamo di nuovo grande l'arte, ragazzi.
Picasso si è scopato una minorenne. E a me basta questo, non mi interessa. "Ma il cubismo? Ci serve."
Marie-Thérèse Walter aveva 17 anni quando l'ha incontrato, minorenne. Giuridicamente parlando. Picasso ne aveva 42 era sposato e all'apice della carriera. Ha importanza? Sì. Sì, ce l'ha. Ce l'ha eccome. Ma come lui dice: "No, è stato perfetto. Eravamo entrambi nel fiore degli anni". 
L'ho letto a 17 anni. Ma allora non ero arrabbiata, perché studiavo il cubismo!
Lasciate che mi spieghi. Il cubismo è importante. Lo è veramente, ha cambiato tutto. Picasso ci ha liberati dalla schiavitù. Dalla schiavitù di dover riprodurre fedelmente una realtà tridimensionale su una superficie bidimensionale. La prospettiva a tre punti, quella che crea l'illusione di un singolo, stabile punto di vista? Picasso disse: "No! Siete liberi! Usate tutte le prospettive insieme! Dall'alto al basso, dentro e fuori, tutte le prospettive contemporaneamente!" Grazie, Picasso. Che uomo. Che eroe. Grazie. Ma tra quelle prospettive, ce n'era una femminile? No? Allora non me ne frega un cazzo.
Continuano a dirmi di separare l'uomo dalla sua arte, di differenziare una cosa dall'altra, perché è l'arte che conta, non l'artista. Quindi bisogna imparare a separarli. Beh, va bene, ok. Facciamo una  prova. Perché non togliamo il nome Picasso e vediamo quanto valgono i suoi scarabocchi? Nessuno colleziona blocchi di Lego, collezionano Picasso!
[...]
L'errore di Picasso era la sua arroganza. Credeva di poter rappresentare tutti i punti di vista. E il nostro errore è stato quello di invalidare il punto di vista di una ragazzina diciassettenne perché credevamo che il suo potenziale non avrebbe eguagliato il suo. Col senno di poi, tutti i nodi vengono al pettine. Una diciassettenne non sarà mai e poi mai nel fiore degli anni! Mai! 
-
Sapete perché abbiamo i girasoli? Non perché Vincent Van Gogh ha sofferto. E' perché Van Gogh aveva un fratello che gli voleva bene. Nonostante il dolore, aveva qualcosa che lo teneva legato al mondo. Ed è su quello che le nostre storie dovrebbero concentrarsi. I legami.

lunedì 18 giugno 2018

Thread - Weekend (2011)

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domenica 10 giugno 2018

Thread - Patrick Melrose


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venerdì 20 aprile 2018

V

Non mi siedo mai in questo punto della casa, sulla panchinetta grigia in salotto che ha davanti la grande finestra che da sul balcone. Mi rendo conto che è già poetico così e infatti è l'ideale, se solo non avessi lo strano complesso interiore di non volermi mai far vedere mentre scrivo al pc. Non mi siedo mai qui per scrivere, perché il corridoio vicino è quello che parte dalla porta d'ingresso. Che ansia.
Ho sempre scritto nel buio e nella solitudine di camera mia, appunto perché non so concentrarmi né farmi vedere. Questo mi riporta a un problema che mi ha davvero tormentato nel corso delle scorse settimane: qualcosa che è durato relativamente poco, qualche giorno, ma che in realtà mi trascino praticamente da sempre. Infatti persiste ancora in questo momento, solo in una forma più attenuata e leggermente più calma. La colpa è tutta di Xavier Dolan reo, innanzitutto, di non avermi (ancora) risposto su Twitter o Instagram e poi, in "secondo luogo", di avermi involontariamente messa con le spalle al muro per costringermi a osservare, uno per uno, tutti i miei limiti. Non ci vedo nulla di male nell'avere dei limiti, non è questo il problema. Il problema, nel mio caso, sorge quando mi rifiuto categoricamente di superarli o almeno provarci nel momento in cui so di poterlo fare. Non capisco, perciò, se si tratta di limiti nel senso puro della parola oppure semplicemente di paura, poco coraggio, pigrizia.
Un limite è il fatto che, appunto, mi nascondo da sempre quando scrivo. Sia fisicamente che psicologicamente: dentro una stanza, dietro uno pseudonimo, in mezzo alle storie. Pochissime persone che realmente mi conoscono hanno letto qualcosina di mio e questo solo dopo che la sottoscritta c'ha messo del tempo per decidersi. Ci sono stati giorni, di recente, in cui mi sono chiesta da dove, quale punto della mia vita passata, partisse tutta questa vergogna. Tutto questo nascondersi, questo vivere quasi una vita parallela a questa e solo mia. Ho tentato di ricollegare questa vergogna di metterci la faccia e la verità dentro le parole e mi è venuto in mente quanto mia madre odiasse le carinerie, quando ero piccina. Quanto mio padre fosse distante. La verità è che, sebbene le cose adesso siano cambiate tantissimo, quel soffocamento emotivo mi deve aver portata dritta sulla strada in cui sono. I miei sono cresciuti con me e sono diventati i miei più grandi sostenitori, il loro sostegno e supporto non mi manca, tuttavia non so ancora come ritornare indietro e ripartire nuovamente, perché scrivo da sempre e da sempre mi nascondo. Perché mi protegge, perché posso controllarlo, perché è il modo più semplice di non soccombere.
Non lo so.
Fatto sta che aver conosciuto il lavoro e le storie coraggiose, oneste, forti e autobiografiche di questo ragazzo di 29 anni mi ha prima buttato a terra l'autostima, poi quando si è rialzata l'ha presa per i capelli e l'ha ributtata di nuovo.
Ciò che avrei tanto voluto sapere da lui è come si scrive senza filtri, come si fa a dire veramente la verità e venirne fuori. Come si diventa così determinati come i treni che sfrecciano senza fermarsi in nessun caso.
Non lo so, di nuovo.
Ma adesso so che è possibile venirne fuori, in un modo o nell'altro, perché non c'è nessuna fretta e la strada è sempre così lunga.

giovedì 12 aprile 2018

Thread - Queste cose mie


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lunedì 29 gennaio 2018

...AND I'LL CALL YOU BY MINE








La bocca
Che prima mise
Alle mie labbra il rosa dell'aurora,
ancora
in bei pensieri ne sconto il profumo.

O bocca fanciullesca, bocca cara,
che dicevi parole ardite ed eri
così dolce a baciare.


Umberto Saba









(Ciò che Call Me By Your Name è stato fin dal primo momento, per me, non sono forse riuscita ad esprimerlo ancora. So solo che da quell'istante ho iniziato a scrivere questo. )