domenica 2 dicembre 2018

LUCI NOSTRE


Urlavi «cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?».
Mi colpisce il pensiero di come l'impulso nostalgico di una mattina di Settembre, mi abbia spinto ad acquistare un biglietto per la data più vicina. "Vuoi venire?", ho scritto a M., e ancora prima che mi rispondesse sapevo già che sarebbe stato un sì. Il 3 ottobre, invece, nella quotidianità priva di nostalgia (semmai piena di stress) di una mattinata di studio come tante, mi è apparsa sul cellulare la notizia che questi dieci anni di Luci si sarebbero presto spenti. Il modo in cui l'hai detto però, specificando che in maniera molto relativa tu andavi a chiudere un progetto di dieci anni e c'era ancora un sacco di gente che nemmeno aveva idea di chi tu fossi, non l'ha reso tragico. Perché a me piace tantissimo la relatività delle cose. E' stato triste, ecco, anche se tutto quello che sono riuscita a pensare era che è bello accorgersi di essere cresciuti. Tu te ne sarai accorto chissà come, ma dev'essere stata una rivelazione inaspettatamente serena. Come quando senza volere guardi fuori dalla finestra e dici "ah, ma è già buio". Una constatazione amichevole del nostro niente, per rubarti le parole. 
Dicevo, in maniera molto relativa tu chiudi questo progetto e c'è gente che è ancora convinta che Le Luci Della Centrale Elettrica sia un gruppo (anche io un bel po' di anni fa ho fatto un po' fatica a capirlo), invece ci sei sempre stato solo tu e quella specie di confusionaria slam poetry che lasciava perplessi chi non ti capiva. 
Io invece ho sempre pensato che lavoraccio fosse, mettere dentro una canzone tutto tutto tutto quello che volevi dire. Tu mi hai dato sempre l'impressione di esserne capace, indipendentemente dalle parole che usavi. Indipendentemente dalla confusione, ho sempre capito quello che dovevo capire.
Quindi sai cosa racconterò, di questi cazzo di anni zero? Racconterò la prima parte dei miei vent'anni, il privilegio di crescere accanto a quel gruppo assurdo di amici che mi ha raccolta da terra, ricomposta, messa in piedi tante volte. Un privilegio secondo solo alla gioia di veder loro crescere, compiere passi da giganti, acquisire consapevolezze, ritrovare se stessi dopo essersi persi. Racconterò dei giorni in cui imparavamo a conoscerci, le sere in cui tornavo a casa a piedi dall'università, la solitudine dei ritorni e delle partenze, l'insonnia causata dal pensiero che il futuro potesse separarci, ma «nel disastro il futuro era sempre lì a sorriderci»; dei tramonti che mi riempivano il cuore, le cime degli alberi dopo una lunga giornata, i viaggi in solitaria, le serate felici da fare schifo, tutti i concerti rigorosamente in transenna, i pianti trattenuti, gli esami che mi hanno fatto disperare,  le stanze vuote, il rumore delle luci. 
Le tue canzoni a fare da soundtrack senza volerlo, ad insegnarmi a provare a dire tutto quello che c'è da dire. Com'è crescere «all'interno delle luci»; com'è non scordare mai le parole di Cara Catastrofe, che ha aperto tutto, inclusi questi anni. E poi racconterò di te, dicendo che «dopo di lui più nessuno a correre con le braccia ad ali di gabbiano», perché servirebbe anche quel tipo di coraggio, a vent'anni.
Hai chiuso con un'inaspettata versione acustica di Questo Scontro Tranquillo, radunandoci tutti ai piedi del palco e non potevi che regalarmi gioia più grande.

Si abbassano le Luci
Si alza il sipario
Entra: Vasco.

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