A lungo ho pensato alle parole che avrei scritto, quando Steven Moffat avrebbe detto addio a Doctor Who. Ad oggi, comprendo che, quando penso a quest'uomo, non mi viene in mente nient'altro che il suo amore viscerale per questa serie. Una fedeltà incrollabile in questo personaggio particolare che ha contribuito a cambiare e far crescere in maniera epocale. Questo personaggio particolare che ci mantiene bambini e sognatori. E' il compito più difficile dell'Universo, non perdersi dentro i noiosi affanni di una vita adulta.
Ci sono parole che rimangono con noi molto più a lungo rispetto ad altre, insegnamenti e rivelazioni che s'imprimono di più nella mente, mentre altre sfumano nell'esatto momento in cui ci distraiamo. Ricordo chi mi ha spiegato per la prima volta il significato di qualche parola e ricordo chi mi ha insegnato determinati atteggiamenti, per poter stare al mondo.
Breve discorso che porta al mio Dottore preferito: l'Undicesimo, il figlio prediletto di Steven Moffat, il quale finalmente con la quinta serie ha preso in mano la direzione dello show per portarlo su una strada senza più ritorno. Nessun rimpianto, né rimorso: Geronimo!, davvero, senza pensarci due volte a sbattere violentemente contro le convenzioni, la logica, la tradizione e i muri. Un Dottore che si ferma a metà tra un vecchio e un bambino e decide di lasciarsi indietro il dolore, correndo lontano il più possibile. Ridendogli forte addosso, posticipandolo, non dandogli voce, non lasciandolo parlare, non facendosi frenare dai rimorsi, dalle perdite e dalle parole non dette.
Quando perde i Pond, l'Undicesimo Dottore non ne parla più. Guadagnandosi tutta la mia comprensione e il mio rispetto.
Il suo dolore è solo il suo e decide lui se farlo vedere, decide lui di non parlarne, decide lui di nasconderlo e non pensarci.
Mentre il dolore è comunque lì come un'assenza ingombrante, nelle pareti blu del suo TARDIS e negli abiti improvvisamente più scuri perché questa è l'unica voce che lui gli concederà.
Ho sempre definito l'Undicesimo Dottore molto meno umano rispetto al Decimo, affermando di apprezzare un sacco questa sua qualità. Nel momento in cui scrivo, mi colpisce in pieno la consapevolezza che probabilmente l'Undicesimo sia stato il più umano dei due. Quello che va avanti per non fermarsi a pensare. Quello che nasconde i suoi veri sentimenti per non averci nulla a che fare. Quello che si tiene il lutto dentro perché è solo il suo e nessun altro può capirci nulla. Quello che più si avvicina al mio cuore.
Se dovrò parlare di Steven Moffat non posso farlo senza citare l'Undicesimo Dottore, che quest'uomo ha fatto vivere e in cui ha riversato tutta la parte migliore di un sogno che durava da una vita. Ci sono tante lacrime, riflessioni e sorrisi che devo a Steven Moffat. Mettere tutto dentro queste parole è forse la parte più difficile.
Ho parlato prima di momenti particolari che non sembrano sfumare via, con gli anni. Quando mi hanno detto che Babbo Natale non esiste, l'ho vissuta come una violenza psicologica assurda. Io non avevo bisogno di quella rivelazione, io avevo bisogno di credere in quella figura che in tutti i modi gli altri cercavano di cancellare dall'esistenza. Ricordo ancora l'iniziale sentimento di rifiuto come fosse ieri.
Questo show e coloro che ci hanno lavorato in tutti questi anni, hanno dato un pretesto alla bambina del mio passato affinché potesse continuare a credere. E' davvero tutto ciò che devo a questa serie tv e tutto ciò di cui sono grata, per estensione, anche a Steven Moffat. Che ha saputo parlare al mio cuore e darmi un personaggio che più si avvicinasse ai miei sbagli. E non ho iniziato nemmeno a parlare delle donne nate dalla sua penna: forti, affamate, libere, curiose e indimenticabili. River Song, Amelia Pond, Clara Oswald e Bill Potts, pezzi di storie senza una fine. Nessuna di loro muore o scompare davvero dal tempo.
E poi è arrivato Peter Capaldi, di cui ricordo l'iniziale delusione per la scelta di un attore che era abbondantemente già apparso in Doctor Who e in Torchwood. La mia proverbiale diffidenza mi portava a credere che avrebbero sicuramente fatto un macello per spiegare questo ingombrante paradosso; tempo due stagioni (la mia preferita, di sua, rimane la 9) e mi sono ricreduta e affezionata. Una diffidenza spazzata via dalla conoscenza di un'altra infanzia, la sua, che cercava anche di sopravvivere.
Se penso che Capaldi e Moffat siano stati lì davanti alla tv sin dagli arbori di Doctor Who e, in qualche modo, abbiano impostato i loro sogni partendo dal loro amore per questo show, stento davvero a crederci.
Eppure, d'altro canto, non mi sorprende davvero.
Da questo momento in poi, scrivo come qualcuno che ha già visto due volte l'episodio finale di Steven Moffat e Peter Capaldi e si è fatta un bel pianto sostanzioso.
Come ho scritto altrove, l'episodio finale di Steven Moffat non è stato pieno di mostri, cattiverie, plotting e casini. Il suo addio ha avuto la forma di un episodio pacifico, sereno, malinconico, persino divertente. Per una volta nessuno cerca di ammazzare nessuno e il bene vince senza nemmeno combattere. Così atipico per uno come Steven Moffat, che per me ci sta tutto. Ha detto addio al Dottore nella maniera più grata possibile: in silenzio, attraverso la persona di Peter Capaldi. Attraverso le parole che non ha saputo dire, perché le ho avvertite tutte.
Due sognatori che hanno lasciato lo show nello stesso modo in cui l'hanno conosciuto: con un cuore da bambini. Solo i bambini sanno il nome del Dottore, se il loro cuore è al posto giusto e le stelle sono favorevolmente allineate. Saranno coloro che non cresceranno mai veramente, né dovranno dire addio davvero. Saranno coloro che si affideranno alle storie, per non perdersi mai nel caos della loro mente e del mondo là fuori. Tutti siamo storie, alla fine. Se il nostro cuore è al posto giusto e le stelle sono favorevolmente allineate, non finiremo mai.
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